Agricoltura, Editoriale

Agricoltura inutile e dannosa

“Sale a 3 miliardi di euro il conto dei danni causati dalla siccità che assedia città e campagne, con autobotti e razionamenti”. Dateci i soldi tuona, a conti fatti, Coldiretti chiedendo in pratica di chiudere il recinto con devastanti quanto inutili mega invasi quando in pratica i buoi sono già scappati. Dateci i soldi, reclamano le associazioni degli agricoltori dopo aver spogliato ecologicamente il Belpaese agevolando finanziamenti per produrre la qualsiasi inogniddove. Dai pioppi al tabacco, dai kiwi e mais nel pontino a estesi noccioleti nel viterbese. Produciamo di tutto e di più: dalle verdure in grado di sfamare mezzo mondo a viti, ulivi, agrumi ed esotiche di ogni genere. Coltiviamo ovunque a prescindere dal sistema idrogeologico e dalla quantità di acqua richiesta dalle colture. Ogni cosa, va detto, viene ben condita da moderni fitofarmaci per la gioia e la salute del consumatore che acquista a prezzi esagerati ogni cosa prima di gettarla per lo più nei cassonetti dell’indifferenziata.

I costi sono distribuiti per fare un esempio, sulla base di una media calcolata nell’arco degli anni 2008/2018, all’incirca così. Per ogni euro speso in pane 8,6 centesimi sono destinati al produttore agricolo, 2,9 centesimi al Molino, 34 ai produttori di pane sfuso all’ingrosso, 54,5 centesimi alla distribuzione. Non scherziamo cercando di essere ancor più precisi. Cosa produce l’industria agraria nazionale per prosciugare il Belpaese assieme alle perdite delle condotte?

Le cosiddette legnose sono le più diffuse, stando ai recenti dati Istat con circa 800mila aziende, diminuite del -32,8% rispetto al 2010, per una superficie complessiva di 2,1 milioni di ettari. La gran parte è dislocata tra Puglia, Sicilia e Calabria. La coltivazione più diffusa, soprattutto in Puglia, è quella dell’ulivo. A questa segue la vite che coinvolge 255mila aziende sul territorio nazionale, con un particolare sviluppo e crescita in Veneto. Focalizzandosi sui fruttiferi l’Istat parla quindi di frutta fresca ma anche di quella di guscio fino alle bacche. Negli oltre 392mila ettari a disposizione la coltivazione più diffusa è il melo, in particolare nelle Province Autonome di Trento e Bolzano che detengono complessivamente il 28% delle aziende e il 52,5% della superficie. Gli agrumi sono concentrati soprattutto in Sicilia per una produzione in particolare di arance ma anche di bergamotto, cedro, chinotto e pompelmo. Per la frutta a guscio è il nocciolo il più diffuso soprattutto in Piemonte, a livello di aziende che superano le 8mila unità, e nel Lazio, per la superficie di terreno con oltre 27mila ettari.

Oltre confine la situazione non cambia. Secondo i dati rilasciati dall’Agenzia europea dell’Ambiente, un terzo dell’acqua consumata nel vecchio continente è utilizzata dal settore agricolo. Sempre in Europa, l’utilizzo di pesticidi, fertilizzanti e l’inquinamento del suolo, sono le principali cause di siccità. Senza contare che tra pascoli e terreni coltivati a mangimi, il bestiame sfrutta il 77 per cento delle terre agricole del Pianeta, eppure produce solo il 17 per cento del fabbisogno calorico globale e il 33 per cento del fabbisogno proteico globale.

A proposito di ovile, non ci ha fatto mancare nei giorni scorsi il suo parere il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Forse per smentire l’immagine di sponsor del nucleare ha spiegato ai cronisti di voler usare i soldi del Pnrr per produrre energia elettrica con moderni mega invasi a castello a uso e consumo del territorio. Parole promettenti per le grandi aziende. Già, le grandi aziende. E sì perché non ci son mica più i contadini di una volta. In 38 anni sono scomparse due aziende agricole su tre e questa riduzione è stata più accentuata negli ultimi vent’anni: il numero di aziende agricole si è infatti più che dimezzato rispetto al 2000, quando era pari a quasi 2,4 milioni.“In primo luogo l’agricoltura italiana è andata riducendosi nel numero di aziende, che però sono divenute più grandi – evidenzia il presidente dell’Istat”.

Fin qui le statistiche. Poi c’è la realtà delle cose che a ben guardarle si evince che son finiti i tempi delle vacche grasse, come direbbero i nostri vecchi. Perché ce lo spiega un altro adagio che si racconta in campagna. C’era un pover’uomo che voleva cucinare le rane catturate nello stagno, ma il contadino era tanto abile ad agguantarle quanto imbranato a bollirle. Lui in realtà non aveva colpe se gli anfibi, non appena sentivano salire la temperatura dell’acqua, saltavano via dalla pentola. Il vecchio un bel giorno ebbe però l’idea vincente. Fece bollire prima l’acqua e poi infilò le rane nella pentola. Ecco noi adesso ci troviamo di fatto nella stessa situazione delle rane. Bolliti senza più via d’uscita, se non peggiorando la situazione. Come pare voler fare Coldiretti in nome dell’agricoltore assetato. Con puntuali comunicati stampa, sempre sul pezzo, la più importante, potente e ricca associazione di categoria si mostra sicura di sé e pronta a difendere a spada tratta ambiente e agricoltori. Una determinazione davvero invidiabile considerando che parliamo di uno dei misteri più fitti dell’analisi ambientale del nostro Paese. Parola dell’esperto biologo Giulio Conte che pure qualche studio negli anni sul tema sembra aver fatto. A suo dire le prime stime sui consumi irrigui in Italia risalgono alla Conferenza Nazionale delle Acque svoltasi a Roma del 1969. Gli atti della Conferenza stimavano – ricorda su Ambiente Italia – i prelievi irrigui nazionali nell’ordine dei 25 miliardi di metri cubi all’anno, dato confermato nel 1989, quando le stime della Conferenza delle Acque vennero aggiornate.

Quel che è certo lo scrive allarmato in un recente comunicato il Centro Italiano per la riqualificazione fluviale. L’agricoltura è il maggiore utilizzatore mondiale: secondo stime Anbi (Consorzi di bonifica e di irrigazione) in Italia ad essa sono imputabili 14,5 miliardi di mc di acqua l’anno, pari al 54 per cento dei consumi totali. In quest’ambito, a loro avviso, è una distorsione che si continui a parlare dei miliardi di euro di danni causati all’agricoltura dalla siccità, quando il fulcro della questione dovrebbe essere la produzione di cibo, che prima di tutto deve essere sostenibile. La sostenibilità, sostengono, è un prerequisito essenziale affinché i livelli produttivi permangano nel tempo, a fronte non solo delle crisi idriche, ma delle numerose altre crisi sistemiche che stanno rendendo sempre più difficile e costoso l’accesso ai fattori su cui si è basata la produttività agricola dal secondo dopoguerra ad oggi. È quindi prioritario ripensare a quali siano le produzioni agricole meritevoli di essere incentivate e quali invece da disincentivare, in un’ottica di sicurezza alimentare, privilegiando ad esempio le colture meno idroesigenti all’interno del nuovissimo Piano strategico nazionale della PAC (PSP) che, lo ricordiamo, è stato bocciato dalla Commissione Europea in particolare proprio per lo scarso coraggio in tema di sostenibilità ambientale.

Per incrementare la sostenibilità della produzione agricola è fondamentale poi ridefinire l’organizzazione dei paesaggi agrari e delle pratiche agronomiche. L’agricoltura, rimarca la comunità scientifica, è la maggiore causa singola di perdita di biodiversità. Nella UE il 70 per cento dei suoli sono degradati. Secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale il 28% del territorio italiano presenta segni di desertificazione, che non è banalmente un problema di mancanza d’acqua; infatti, secondo dati del 2008, in Italia “l’80 per cento dei suoli ha un tenore di carbonio organico inferiore al 2%, di cui una grossa percentuale ha valori di Co minore dell’1%”, questo indica suoli disfunzionali, proni alla desertificazione, meno capaci di trattenere acqua e nutrienti, dalla minore capacità produttiva. Va generalizzata quindi l’adozione di misure mirate all’incremento della funzionalità ecologica dei territori agrari e della loro capacità di trattenere e far infiltrare le acque meteoriche e prevenire il degrado dei suoli. Ma per far ciò occorre non rietere gli errori del passato.

Quando, nel 2017, gran parte del territorio nazionale è andato incontro ad una situazione di grave siccità, che ha provocato danni rilevanti al settore agricolo, quali sono state le misure concepite dal Governo Italiano? Vi aspettate una articolata strategia volta a rendere più efficiente l’uso dell’acqua in agricoltura? Non esattamente… Con la legge finanziaria del 2017, viene adottato, il “Piano nazionale di interventi nel settore idrico, con una dotazione finanziaria di 540 milioni di euro, articolato in due sezioni: sezione «acquedotti» e sezione «invasi»”, tanto perché fosse chiaro che la strategia nazionale per far fronte ai problemi della siccità prevede solo l’incremento del prelievo di risorse idriche; di gestione della domanda e ottimizzazione dei consumi non si interessa. Resta il fatto che ancora oggi, lamenta Giulio Conte, esperto in ecologia degli ecosistemi acquatici, socio fondatore del Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale nonché membro dell’Unità Tecnica di Supporto dell’Osservatorio nazionale dei Contratti di Fiume, una strategia articolata per affrontare il rapporto tra attività agricola e consumo di risorse idriche resta un libro dei sogni.
Per adattare l’agricoltura – chiosa ancora Conte, dei prossimi decenni al cambiamento climatico – che fa prevedere una ulteriore estensione dei periodi siccitosi estivi ed una maggior intensità degli eventi meteorici – non è pensabile di intervenire solo sul fronte dell’offerta.

Nei prossimi anni saremo quindi costretti a concepire una strategia più articolata che si ponga sia l’obiettivo di trattenere i deflussi (individuando soluzioni più ambientalmente sostenibili dei grandi invasi) sia quello di ridurre i prelievi per irrigazione (rendendo più efficienti le colture). Gli elementi di questa strategia sono noti da tempo conclude Giulio Conte, attualmente socio fondatore di Iridra. Per trattenere le acque sul territorio bisognerebbe in pratica realizzare sistemi naturali di ritenzione e piccoli, ma piccoli invasi aziendali nonché diffondere i sistemi di ricarica artificiale delle falde.
Bisognerebbe, vale la pena ribadire, favorire le colture autunno vernine (che non richiedono irrigazione), diffondere l’uso di varietà meno esigenti in termini di irrigazione ricorrendo anche all’innovazione informatica e digitale. Tecnologia e innovazione applicate all’agricoltura, dalle stazioni meteo ai sensori di umidità del terreno fino a raffinati sistemi basati su IoT e intelligenza artificiale, riducono fino al 20 per ceto i consumi di acqua rispetto ai sistemi di coltivazione tradizionali. Con il Vertical farming, infine, nuove start up promettono, ad esempio, di produrre localmente, senza utilizzare pesticidi o metalli pesanti e consumando fino al 98% in meno di acqua rispetto alla coltivazione in campo. Per promuovere questo tipo di misure non è sufficiente allocare un po’ di risorse in finanziaria.

Le risorse finanziarie pubbliche sono necessarie – da destinare soprattutto a finanziare la tecnologia informatica necessaria per l’attuazione delle misure: dati meteo da incrociare con il contenuto idrico nei suoli, sensori per registrare finalmente prelievi e consumi, ecc. – ma non sufficienti. Ciò che serve è una strategia complessa fatta di incentivi e disincentivi, accordi con il modo agricolo e della bonifica, educazione e formazione degli operatori pubblici e privati. Con un intervento radicale sulla PAC (politica agricola comune) che, finora, non è riuscita a incidere sull’efficienza dell’irrigazione. Sarà un percorso lungo e complesso, ma non ci sono alternative, affidarsi agli invasi non basterà e ci fa solo perdere di vista la strada maestra: prima avviamo il percorso, prima arriveremo a destinazione.

C’è un ultimo aspetto, sottolinea Conte su Ambiente Italia, del complesso rapporto tra acqua e agricoltura nella prospettiva del cambiamento climatico che non è possibile trascurare: il rapporto tra uso agricolo del territorio, stato ecologico dei corsi d’acqua e rischio idraulico. La Strategia UE 2030 per la Biodiversità definisce ambiziosi obiettivi di recupero degli ecosistemi in Europa nel prossimo decennio. In particolare chiede agli Stati Membri di accelerare l’attuazione delle direttive europee sulle acque, ripristinando la continuità e un deflusso naturale in almeno 25mila km di fiumi entro il 2030, rimuovendo barriere, restituendo spazio ai corsi d’acqua nelle pianure alluvionali, anche per permettere la naturale espansione delle piene: unica strategia veramente efficace per ridurre il rischio idrogeologico. Le strategie di adattamento al cambiamento climatico vanno nella stessa direzione: è necessario restituire ai corsi d’acqua almeno parte delle piane alluvionali che sono state loro sottratte nel corso dell’ultimo secolo. Sempre più dovremmo imparare a convivere con i due estremi di lunghe siccità e precipitazioni intense, con il loro portato di alluvioni, a cui solo un territorio e un reticolo idrografico maggiormente naturali possono far fronte contemporaneamente.

In considerazione di tutto ciò il Cirf chiede, infine, al Governo di fermare il piano invasi e di mettere in campo una strategia di adattamento davvero integrata, incardinata su un esteso piano di riqualificazione e di incremento della biodiversità. A conti fatti, insomma, tre miliardi di euro servono solo a finanziare un’agricoltura devastatrice. Così la definiva, ormai trent’anni fa, il geniale Giuliano Cannata, uno dei padri dell’ambientalismo scientifico, autore de I fiumi della terra e del tempo. Così è se vi pare.

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