Editoriale

Elezioni: tanto tuonò, che piovve

Si intravedevano nuvoloni scuri all’orizzonte che non facevano prevedere nulla di buono e così è stato. Gli ultimi sondaggi accreditavano FdI di un 24/25 per cento, il Pd oscillante tra il 22 e il 23%, FI al 5/6%, la Lega intorno al 12%. Questa situazione (oltre agli abboccamenti che ci sono stati tra esponenti del Pd e l’entourage di Giorgia Meloni nelle ultime settimane, tanto che Mario Draghi si è sentito in dovere di far sapere di non essere disponibile per un eventuale governo di salute pubblica), faceva pensare che al Senato la destra avrebbe avuto vita molto difficile. A quel punto se Calenda avesse strappato un 10/11% la partita si sarebbe potuta riaprire. Non è successo ma non per molto. Al Senato la destra ha 112 senatori, la maggioranza è 101, considerando che da questo calcolo sono escludi i senatori a vita (il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano e altri cinque di nomina presidenziale Mario Monti, Elena Cattaneo, Renzo Piano e Carlo Rubbia nominati da Napolitano e Liliana Segre nominata da Sergio Mattarella, quattro dei quali decisamente orientati a sinistra) il margine si stringe ancora. Se fossi la Meloni suggerirei ai miei senatori di non allontanarsi troppo dagli effimeri stucchi di Palazzo Madama.

Anche rispetto al cosiddetto trionfo della destra sarei un po’ più prudente. Si sono presentati alle urne 33.150.000 degli elettori aventi diritto. Alle elezioni precedenti le tre formazioni del centrodestra avevano ottenuto un totale di 11.709.251 voti. Il 25 settembre scorso hanno votato per gli stessi partiti 12.043.934 nostri concittadini. Se la matematica mi viene in soccorso fa un più 334.683 voti che rappresentano una crescita di consensi dell’1,01%. Dov’è l’arcano? Molto semplice, l’inghippo sta nella legge elettorale attualmente in vigore che ha premiato la compattezza del centrodestra e penalizzato la frammentata rappresentanza dei partiti che si sono opposti a Meloni e company.

Se ci fermassimo al dato numerico, però, saremmo disonesti intellettualmente. Il significato politico di ciò che è successo domenica scorsa va molto oltre i numeri. Si è verificato un cambiamento paradigmatico nella politica italiana con lo sdoganamento definitivo di quell’area che ha traghettato gran parte degli ideali del ventennio all’interno delle istituzioni repubblicane, e non è cosa di poco conto. Un aiuto alla crescita di FdI l’ha dato certamente la Lega che è rimasta quella di Pontida, quando si fa sovranista e parla di Italia e di italiani i suoi elettori votano per i nazionalisti veri. Come questo sia stato possibile sarà materia di analisi da parte dei politologi e degli storici. Ci vorrà tempo per metabolizzare questo tsunami politico e istituzionale e collocarlo nella giusta posizione all’interno della vita di questo Paese. Molto, però, dipenderà dal nuovo governo, da quanto saprà coniugare l’attuazione di alcune riforme già anticipate in campagna elettorale (tra queste la più spinosa è sicuramente quella costituzionale) con la collocazione al centro del progetto europeo, senza cioè entrare in collisione con le istituzioni comunitarie. Staremo a vedere se dovremo lasciarci liberi i sabati mattina o potremo prenderci i fine settimana per visitare altri Paesi europei a testa alta.

Detto della maggioranza cosa dire dell’opposizione? Il vanto triste della Serracchiani che rivendica al Pd il risultato di secondo partito italiano e primo dell’opposizione dice del clima che si respira nella dirigenza Dem più di qualsiasi altra cosa. Il Pd infarcito di ex DC non poteva presentarsi come una opzione appetibile per gli elettori di sinistra i quali, con grande senso dello stato e della storia, si sono in gran parte astenuti o hanno votato per i soliti 1 per cento. Cosa dire…complimenti! Ancora una volta ci si è evirati per far dispetto alla consorte. C’è da dire che la scelta della segreteria del Pd (non del solo Letta) di non fare l’alleanza con il M5S è stata fatale. Se si può capire una ritrosia verso un’alleanza organica vista la diversa posizione sulla crisi del governo Draghi, nulla avrebbe vietato di fare accordi tattici in collegi contendibili. Sarebbe bastato anche solo questo per sottrarre alla destra la maggioranza almeno al Senato con tutte le conseguenze del caso. Adesso però è il momento di fare chiarezza. La domanda è: quale sinistra vuole rappresentare il PD da qui a quando su questo nuovo progetto politico andrà di nuovo a chiedere il voto alle prossime elezioni? Il congresso che ci sarà tra gennaio e marzo ci dirà se all’interno del partito ci sono le risorse e le idee per uscire dal pantano. Il fatto che abbiano cominciato dalle candidature alla segreteria invece che da una seria analisi politica non fa sperare in nulla di buono.

La disintermediazione a cui è stata sottoposta la politica negli ultimi anni con l’affossamento e la delegittimazione dei corpi intermedi (associazioni, sindacati, partiti ecc) ha ottenuto il risultato opposto di quello che pensavano i loro fautori, l’allontanamento dalla partecipazione anche elettorale a favore del leaderismo (ormai si vota Meloni, Salvini, Calenda e non i relativi partiti). La sostituzione della partecipazione attiva con i social ha fatto il resto. Nostalgia delle vecchie sezioni di partito con i dibattiti, la ricerca della sintesi e “compagno segretario dacci la linea” finale? Elly Schlein ha detto che bisogna ripartire dando dignità e centralità al ruolo dei militanti, staremo a vedere.

Il M5S come la vecchia Democrazia cristiana ha rastrellato voti solo al sud promettendo prebende (tutto gratis, tutto gratis!!! Il loro mantra dell’ultimo mesi compagna elettorale). Fa una certa impressione questo Sud che diserta in massa le urne scomodandosi ad andare a votare solo per garantirsi il mantenimento di un sostegno che, per quanto utile e giusto possa essere, rimane pur sempre puro assistenzialismo.

Il duo delle meraviglie Renzi/Calenda non va oltre la somma delle rispettive percentuali delle quali erano accreditati separatamente. I voti che avrebbero dovuto drenare a destra specialmente a danno di Berlusconi non si sono visti, ad una analisi dei flussi si è riscontrato, invece, che alla fine i voti li hanno tolti al Pd.

Non entra in Parlamento Emma Bonino, la spinta propulsiva delle lontane battaglie civili si è esaurita da tempo e le ruggini di un liberismo senza prospettive sono fatalmente emerse. L’Unto dal Signore (solo con una mano dell’Altissimo sulla spalla un semianalfabeta può diventare ministro degli esteri) torna a fare quello che faceva prima, nulla. La non elezione di Gianluigi Paragone ci evita l’umiliazione di vedere in Parlamento rappresentate posizioni francamente indegne di un Paese come l’Italia.

Un’ultima considerazione va a due casi emblematici della trasformazione in atto. A Sant’anna di Stazzema FdI è il primo partito, a Sesto San Giovanni (la famosa Stalingrado italiana) all’uninominale tra un candidato ebreo figlio di un deportato ad Auschwitz e la figlia del peggiore rappresentante del fascismo in epoca repubblicana ha vinto quest’ultima. Fa tristezza, lascia sgomenti, ce ne dovremo ricordare tutti i giorni da qui alle prossime elezioni.

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