Editoriale

L’ANALISI. Cambiano i titoli, resta il conflitto: brevi considerazioni sul linguaggio bellico dei media nostrani

Chiunque segua l’andamento del conflitto in Ucraina, o meglio la sua rappresentazione sui media occidentali, non può non avere notato come nell’ultimo periodo il ‟discorso” sul conflitto sembri essere cambiato drasticamente. Si tratta forse della conseguenza del fallimento della controffensiva della scorsa estate, che nelle intenzioni di chi l’ha organizzata e gestita (e nella rappresentazione mediatica che ne è stata data) aveva l’ambizioso obiettivo di tagliare il corridoio di terra che collega il Donbas alla Crimea, separando la penisola dal resto del territorio ucraino controllato dalla Russia e rendendola vulnerabile a ulteriori attacchi ed avanzate.

Se il piano fosse andato a buon fine avrebbe rappresentato, oltre che un trionfo militare, il punto finale del discorso narrativo costruito attorno a questo conflitto. In maniera quasi del tutto univoca, infatti, con l’eccezione di poche voci dissenzienti denigrate o accusate senza mezzi termini di essere agenti del Cremlino, la vicenda è stata presentata dai media occidentali come la preparazione e l’attesa della vittoria finale ucraina. Dopo un primo momento di indecisione durante i primi giorni del conflitto, nei quali non era ancora certa la piega che avrebbero preso gli eventi, il discorso ha seguito due linee fondamentali: enfatizzare la resistenza ucraina e l’impreparazione russa, in modo da convincere l’opinione pubblica che l’invasione era destinata al fallimento. Per quanto riguarda il primo punto, più che dare notizia degli effettivi atti di resistenza delle forze armate ucraine, che pure non sono mancati, si è scelto di diffondere storie palesemente propagandistiche: il ‟fantasma di Kiev” responsabile dell’abbattimento di decine di aerei russi, ad esempio, o azioni del tutto implausibili ma mediaticamente efficaci – la pensionata che abbatte un drone russo con un barattolo di pomodori, il gatto che, senza che venga specificato come, aiuta i tiratori ucraini a trovare i loro bersagli, e così via. Parallelamente, sia le forze armate che il governo, l’economia e la società russa sono state rappresentate sull’orlo del baratro. Gli effetti delle sanzioni sono stati descritti come devastanti senza che vi fosse ancora la capacità di poterne valutare realmente l’efficacia; la popolazione è stata rappresentata, alternativamente, come vittima della propaganda o come radicalmente ostile alla guerra, enfatizzando il numero dei giovani russi che lasciavano il paese per non rischiare di essere chiamati alle armi; Putin e l’intera leadership russa come maniaci fuori controllo, incapaci di pensare e agire razionalmente e mossi solo da motivi abietti o da delirio di potenza; l’esercito, infine, come un pachiderma male armato, con vecchio materiale sovietico malmesso (al contrario di quello ucraino dotato dalla superiorità tecnologica garantita dalle armi fornite dalla NATO, tutte senza eccezione ritenute migliori delle controparti in possesso dei russi e sempre ‟in grado di cambiare il conflitto”, in un elenco ininterrotto al quale via via aggiungere i droni Bayraktar, i missili anticarro Javelin e NLAW, gli HIMARS per finire, più recentemente, con i carri armati Leopard, Challenger ed Abrams e con gli F-16, sempre promessi ma mai consegnati), disorganizzato, guidato da incompetenti che conoscono com unica tattica quella di mandare allo sbaraglio i soldati in inutili e brutali ondate umane, con pochissime scorte di proiettili e benzina destinate a esaurirsi in poche settimane. Insomma, un’operazione militare decisa all’improvviso da uno psicopatico seguendo chissà quale capriccio ed affidata a un popolo di schiavi incapaci sia di ragionare che di ribellarsi. Una rappresentazione non soltanto falsa e quasi parodistica nelle sue descrizioni, ma anche profondamente razzista, che riecheggiava antichi luoghi comuni presentando i russi come un’orda ‟asiatica” di barbari distruttori desiderosi esclusivamente di distruggere la superiore civiltà occidentale incarnata e difesa dagli ucraini, popolo invece pienamente ‟europeo”.

L’obiettivo di questa rappresentazione era ovviamente quello di convincere l’opinione pubblica, già portata istintivamente a solidarizzare con l’Ucraina in quanto paese invaso e generalmente sospettosa della Russia, che la strategia scelta dai governi occidentali, ovvero rifiuto di qualsiasi conciliazione diplomatica, aumento delle sanzioni e invio di armi, era valida e molto saggia. Non c’era bisogno di negoziati perché, stanti i problemi spaventosi della Russia e il migliore equipaggiamento ed armamento dell’esercito ucraino, il conflitto sarebbe stato breve e si sarebbe concluso con la vittoria dell’Ucraina. Eventuali inconvenienti per i cittadini europei (aumento del prezzo delle materie prime, del gas, del petrolio eccetera) erano dunque assolutamente transitori e sarebbero durati quanto il conflitto: molto poco, qualche mese al massimo. Addirittura voci ‟sagge” suggerivano di non esagerare, di non ‟umiliare” troppo la Russia infliggendole una sconfitta troppo gravosa: il paese sarebbe precipitato nel caos, con conseguenze potenzialmente gravi per la sicurezza europea, e Putin, ‟messo all’angolo” dalle vittoriose armate ucraine-NATO, avrebbe certamente scatenato un conflitto nucleare.

Col passare del tempo il discorso si è dovuto giocoforza raffinare. Le poche settimane di conflitto in attesa della vittoria sono diventate prima mesi, poi un anno, poi più di un anno. Questo non ha però portato a ripensamenti sulla strategia da seguire, anzi ha rafforzato l’idea del sostegno  militare all’Ucraina, convinti che a lungo andare le condizioni ipotizzate all’inizio si sarebbero avverate: per il crollo della Russia era solo questione di tempo, anche se ce ne voleva di più di quanto ipotizzato all’inizio, e qualche sacrificio ulteriore. Dei sacrifici sostenuti dagli ucraini, naturalmente, nessuno parlava e il numero dei caduti in battaglia non era, e tuttora non è, mai oggetto di valutazioni approfondite.

Gli inattesi successi ucraini dell’estate 2022 (la sponda ovest del Dneper, inclusa la città di Cherson, abbandonata dai russi per motivi logistici e la regione di Kharkiv riconquistata con un’offensiva-lampo), hanno restituito vigore al discorso ma hanno anche provocato entusiasmi che si sarebbero rivelati eccessivi e soprattutto controproducenti. La doppia ritirata russa è stata interpretata come il segnale che qualsiasi futura offensiva ucraina sarebbe stata coronata dal successo. Bisognava aumentare il numero e la qualità degli armamenti e la vittoria ne sarebbe derivata automaticamente. E così, per tutto l’inverno e la primavera si sono moltiplicati articoli che, in tono quasi messianico, già discutevano dei risultati positivi della futura controffensiva, mentre Bakhmut e Soledar, conquistate dai russi nello stesso periodo (naturalmente sempre grazie alle ‟ondate umane”), venivano descritte come città di nessun valore strategico, nonostante la resistenza disperata e costosissima, in termini di uomini e materiali, organizzata dall’esercito ucraino. In primavera, il superiore addestramento NATO impartito a un gran numero di soldati ucraini e i nuovi mezzi occidentali ‟avrebbero spazzato via i coscritti di Putin”, ridotti ormai a utilizzare le pale come armi. L’unico dubbio era fin dove l’esercito ucraino sarebbe arrivato, se subito in Crimea o soltanto a Mariupol e Berdyansk. L’ammutinamento di Prigozhin, iniziato il 23 giugno 2023 quando la controffensiva ucraina era già partita, rinfocolò le speranze di un crollo del fronte interno russo, messe da parte nei mesi passati insieme alle sanzioni, di cui non parlava quasi più nessuno. Anche in questo caso, però, non si manifestò ciò che si dava per certo, ossia una vera e propria guerra civile in Russia. E non si manifestò nemmeno alcun successo tangibile nella controffensiva ucraina, nonostante la conquista di alcuni villaggi venisse presentata come la premessa per lo sfondamento definitivo del fronte e la rotta dell’esercito russo, rimandata di giorno in giorno ma sempre imminente e sicura. Col passare dei mesi divenne impossibile nascondere la mancanza dei successi dati per certi qualche mese prima e il discorso iniziò a trasformarsi: l’importante, si cominciò a dire, non era tanto conquistare territorio ma infliggere danni ai russi, colpendo le linee logistiche e infliggendo loro talmente tante perdite da obbligarli a ritirarsi. Discorso surreale, visto che erano gli ucraini ad attaccare, ed erano i mezzi NATO dati loro in dotazione ad essere ripresi in fiamme, distrutti nella steppa intorno a villaggi sconosciuti e immediatamente saliti agli onori della cronaca come primi frutti del futuro trionfo.

La descrizione del conflitto iniziò a trasformarsi, ma non si modificò l’assunto di base. Perché l’esercito ucraino fosse messo in grado di infliggere queste perdite catastrofiche ai russi, dunque, bisognava continuare nella linea seguita finora: mandare armi, ancora e di più, e aspettare, iniziando timidamente a dire che il conflitto sarebbe probabilmente durato a lungo senza però mai mettere in dubbio l’esito finale. Ma qui le voci critiche sull’impegno militare statunitense, che già si erano fatte sentire in precedenza ma non erano mai riuscite a diventare discorso predominate, o almeno alternativa convincente, si sono fatte ancora più forti e hanno trovato una sponda anche nella rappresentazione mediatica, oltre che nel Congresso statunitense che si sta rifiutando di finanziare ulteriori pacchetti di aiuti militari. Quasi all’improvviso, il discorso è cambiato radicalmente. Si è parlato prima di stallo della controffensiva, poi di fallimento: la colpa, naturalmente, è stata data agli ucraini, incapaci sia di apprendere le superiori tattiche militari occidentali che di padroneggiare gli armamenti NATO forniti con generosità ed evidentemente troppo sofisticati per loro. L’esercito russo, nonostante le perdite spaventose che, senza alcun dato reale a sostegno, si ipotizza abbia subito, non solo non arretra ma avanza. Alternativamente, viene ora descritto come una minaccia spaventosa, che dopo aver vinto in Ucraina darà l’assalto alla NATO, oppure come un’armata ridotta ai minimi termini ma comunque in grado di essere ancora pericolosa: in entrambi i casi è una minaccia per l’Occidente, alla quale va data una risposta militare aumentando la spesa bellica (il 2% del PIL in spesa militari, ha ricordato Stoltenberg, non deve essere la spesa massima dei paesi NATO ma quella minima) e rimettendo in piedi le linee di produzione di quegli armamenti che nei decenni passati sono finiti in disuso, come i proiettili per l’artiglieria convenzionale. L’amministrazione Biden non riesce dunque a fare altro ragionamento che inviare ulteriori armi, perché a questo conflitto ha legato non solo la sua credibilità e le sue speranze di rielezione nel 2024, ma la credibilità dell’intera NATO, trascinata con leggerezza criminale in un baratro dal quale non si vede via d’uscita. Lo stesso ragionamento viene fatto dai vertici NATO europei, che si sono ormai del tutto sovrapposti a quelli dell’Unione Europea e orientano e indirizzano le scelte politiche del continente, esautorando i parlamenti nazionali e l’opinione pubblica.

Mandare altre armi, dunque, altri soldi, sperando sempre che le condizioni ideali di cui si favoleggiava ormai quasi due anni fa finalmente si manifestino nonostante il paese che si voleva difendere è ormai ridotto in condizioni catastrofiche, con buona parte della sua popolazione morta o emigrata, con le sue infrastrutture distrutte, col suo sistema economico e produttivo decimato. Ed è importante notare come anche nel ‟cambio di paradigma” che ora i media stanno rappresentando all’opinione pubblica non sia mai prevista, in realtà, una qualsiasi soluzione diplomatica. All’inizio bisognava mandare armi per far vincere l’Ucraina; ora bisogna mandarne per non farla perdere, o per non far vincere Putin, e bisogna comprare e produrre armi per i nostri eserciti, per difenderci dalla minaccia prossima ventura. Sempre e solo armi acquistate con soldi pubblici, in spregio totale delle necessità dei cittadini, mai una qualsiasi proposta diplomatica che prenda in considerazione con un minimo di realismo la situazione che si è delineata sul campo e che ora, con improvvisa epifania, viene presentata al pubblico, ma che era chiara fin da subito a chiunque non fosse ottenebrato dal wishful thinking hollywoodiano. Alla diplomazia bisognava pensare prima che il conflitto scoppiasse. Ma le armi, si sa, sono più convenienti, e ora pare ce ne sia gran bisogno.

Francesco Dall’Aglio è ricercatore del Dipartimento di Storia Medievale, Istituto di Studi Storici, Accademia Bulgara delle Scienze.
I suoi interessi di ricerca sono focalizzati sulla storia dell’Europa sud-orientale, con una specializzazione nella Bulgaria del XII-XIII secolo. La sua ultima pubblicazione curata con Carlo Ziviello da pochi giorni in libreria, Oppenheimer, Putin e altre storie sulla bomba, sta riscuotendo uno straordinario interesse da parte dei media e degli analisti di geopolitica.

Condividi