Editoriale

Non c’è pace su questa Terra

La madre di tutte le emergenze e di tutte le disgrazie è la guerra. La militarizzazione della società non è cosa recente. Tutti i popoli in tutte le epoche hanno fatto della forza bellica il loro punto di orgoglio, di catalizzazione della popolazione, di potere. La differenza con l’era attuale sta nella capacità distruttiva delle armi, e nella estensione della capacità di intervento degli eserciti. Ovviamente la pervasività dell’apparato bellico nelle società è fortemente articolato e abbraccia vari livelli ed ambiti. Da quello, ovviamente, economico (produzione di armi) a quello della tutela degli interessi nazionali, al complicato rapporto che, specialmente nelle società democratiche, esiste con frange a volte molto consistenti della popolazione che vede nell’investimento bellico uno sciupio di risorse altrimenti utilizzabili, l’uso, per contro, nelle società autoritarie della retorica bellica per distrarre l’attenzione della popolazione verso nemici esterni.

L’analisi di questo fenomeno è il compito che si è dato l’Institute for Economy and Peace che redige annualmente il “Global Peace Index”, un corposo studio sulla situazione della militarizzazione del pianeta. Le stime ufficiali riportate dal “Global Peace Index 2018” raccontano un futuro incerto e di difficile comprensione. Per il quarto anno consecutivo il livello medio di pace globale è diminuito dello 0,27% rispetto al 2017 e del 2,38% dal 2008. Migliorano 72 paesi a fronte dei 92 che si deteriorano. Nell’ultimo decennio sono peggiorati i conflitti in corso del 5,9 per cento. Sicurezza e protezione si deteriorano del 2,9% mentre la militarizzazione è migliorata di 3,2 punti percentuali. Quest’ultimo dato è conseguenza della ristrutturazione degli eserciti dei maggiori players.

Sono dati abbastanza contradittori ma che analizzati sui vari teatri danno alcune certezze. Una mappatura più dettagliata dei conflitti vede le regioni meno pacifiche rimanere, come negli anni precedenti, Medio Oriente, Nord Africa e America Latina. L’Europa rimane la regione più pacifica al momento ma cala la serenità dei cittadini. Per il terzo anno consecutivo l’aumento dell’instabilità politica, dell’impatto terroristico e delle percezioni di criminalità complicano la situazione. È il caso della Spagna e delle accresciute tensioni politiche per il referendum sull’indipendenza della Catalogna o dell’Ungheria dopo l’elezione in aprile del primo ministro Viktor Orban.

Negli ultimi 100 anni, dalla fine della Prima Guerra Mondiale, molte cose sono cambiate. La democrazia si è diffusa, le relazioni diplomatiche sono aumentate del 600 per cento, le spese militari e le armi nucleari, dopo i picchi del secondo conflitto mondiale e della corsa agli armamenti nucleari, sono anche leggermente diminuite. Nonostante ciò la violenza persiste e si continua a combattere. Cambia la guerra e cambiano le vittime. Da guerre tra Stati si è passati a guerre interne (guerre civili) dove non si attacca il soldato nemico ma si radono al suolo città e villaggi, si colpisce la popolazione civile. La maggior parte delle analisi sulla pace nel XX° secolo e l’inizio del XXI° secolo si è concentrata quasi esclusivamente sulla guerra e sui conflitti. Tuttavia l’analisi relegata al conflitto diretto da sola non è in grado di trasmettere il quadro più ampio della situazione che include anche ciò che la società subisce in termini di disordini, instabilità politica e relative risorse necessarie per prevenire la violenza. L’Italia in questo senso paga un prezzo elevato alla lotta alle mafie e all’instabilità politica. Siamo al 25° posto in Europa e al 38° nel mondo per livello di serenità

Credo sia necessario che, di fronte ad uno scenario come quello presentato dal Global Peace Index 2018 ci si interroghi su quali sono le nostre priorità e i nostri interessi. Verso quale direzione sta andando il mondo? Quanto siamo consapevoli di quello che sta accadendo intorno a noi? Conflitti, migranti che fuggono e che diventano ostaggi in mare, diritti acquisiti messi ogni giorno in discussione sono le conseguenze dell’instabilità globale. Con le politiche fin qui attuate specialmente dai Paesi europei abbiamo voluto focalizzare l’attenzione solo sulla conseguenza finale di tutto ciò, la massa di persone che preme ai confini continentali. Questa apparente miopia (trattasi di un calcolo politico ben preciso) delle classi dirigenti europee non è altro che il tentativo di una parte della politica di utilizzare l’argomento migranti come pretesto per attuare politiche repressive e antidemocratiche. E’ successo negli Usa dopo l’11 settembre con il Patriot Act che ha introdotto restrizioni alle libertà individuali con il pretesto della sicurezza nazionale, sta succedendo in parte dei Pesi europei utilizzando la paure indotta nella popolazione rispetto ali flussi migratori. Sarebbe il caso che si cominciasse a rivolgere l’attenzione verso gli scenari di guerra attivi e si lanciasse una iniziativa affinché si determini un cambiamento radicale delle politiche degli Stati coinvolti e si passi da una economia di guerra quale è quella che ruota intorno ai giganteschi interessi economici ad una economia di pace che garantisse, attraverso una sorta di nuovo piano Marshall globale, una equa distribuzione delle risorse. Vista la situazione non possiamo più permetterci di considerare la pace come un’utopia, è una necessità vitale non solo per le popolazioni direttamente colpite ma per l’intero pianeta. L’urgenza di intervenire sulla salvaguardia ambientale impone una drastica svolta che sposti risorse economiche e intellettuali dal teatro di guerra a quello della riduzione dell’impatto antropico sull’ecosistema. Chissà se ci sono orecchie capaci di ascoltare.

Condividi