Editoriale

Rinuncia alla sua nascita e fonda le Brigate Rosse. La ritrova e s’impegna con l’Arci. Muore a 78 anni Alberto Franceschini

“Tutto ebbe inizio quando stracciai la mia carta d’identità, e iniziò la latitanza”. Sono queste le parole che Alberto Franceschini mi disse, durante una lunga intervista di una quindicina di anni fa, che più di altre mi rimasero impresse. Suoni, forse, inconsci che comunque rimbalzano ancora in testa tra mille pensieri proprio mentre si celebra la Liberazione dal nazifascimo ad opera dei partigiani. E già perché dei misteri sul terrorismo deviato si sa già tanto grazie alle inchieste di Paolo Cucchiarelli, Giovanni Fasanella, Stefania Limiti e tanti altri, ma del delirio che colse quei primi giovani ingenui rivoluzionari si sa ancora poco. Anche se molto emerge tra le righe del libro uscito nel 1988 (Mondadori), “Mara, Renato e io”.

Nella storia dei fondatori delle Br”, scritto da Pier Vittorio Buffa e Franco Giustolisi, Franceschini spiega perché l’organizzazione decise di alzare il livello della lotta armata contro lo Stato colpendo Aldo Moro e non più Giulio Andreotti.

Ma racconta anche altro. La lotta armata descritta dal di dentro, con tutti i suoi errori, paure, emozioni, atti di coraggio, debolezze.

Uno sconvolgente affresco degli “anni di piombo” da cui emerge, a leggerlo con attenzione, quanto di delirante ci potesse essere in chi fantasticava, in qualche modo, di ricevere il testimone, magari, dalle Brigate Garibaldi, formazioni partigiane organizzate dal Partito Comunista Italiano, per continuare la Resistenza.

Alberto Franceschini  è morto l’11 aprile a Milano, ma la notizia è trapelata solo ieri. Aveva 78 anni.

Nato a Reggio Emilia il 25 ottobre del 1947, militò da ragazzo nella Federazione giovanile comunista e fondò, nel settembre del 1970, le Br con Curcio e Cagol, con la quale compì la prima azione di guerriglia, incendiando, il 17 settembre in via Moretto da Brescia, a Milano, l’autorimessa di Giuseppe Leoni, direttore del personale della Sit Siemens.

Entrato in clandestinità nel 1971, fu il primo brigatista ufficialmente latitante. Tre anni dopo organizzò e partecipò al sequestro del giudice Mario Sossi, rapito a Genova il 18 aprile e rilasciato a Milano il 23 maggio. Il giudice Guido Salvini spiegherà in seguito che «fu lo stesso Franceschini a farlo liberare e che non si macchiò mai direttamente di reati di sangue». Franceschini, comunque, subì diverse condanne, tra le quali quella per “concorso anomalo” nell’omicidio di due esponenti del MSI a Padova il 17 giugno 1974 in una sede missina.

Nel settembre del 1974 fu arrestato a Pinerolo assieme a Renato Curcio, in seguito ad una soffiata di Silvano Girotto detto “Frate Mitra”, che si era infiltrato nell’organizzazione in accordo con il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Franceschini venne condannato a oltre sessant’anni di carcere per duplice omicidio, costituzione di banda armata, costituzione di associazione sovversiva, sequestro di persona. Nel 1982, dopo aver in precedenza rivendicato dal carcere anche il delitto Moro, si dissociò infine dalla lotta armata e negli anni seguenti prenderà completamente le distanze dalla violenza politica, esprimendo un pentimento che verrà giudicato “sincero”.

Lasciò il carcere definitivamente nel 1992, quando la sua pena fu dichiarata estinta (grazie agli sconti derivati dai benefici di legge) dopo 18 anni di reclusione, e da allora ha lavorato a Roma presso l’Arci, come dirigente di una cooperativa sociale che si occupava di lavoro e aiuto nei confronti di immigrati, disoccupati, minori a rischio, detenuti e tossicodipendenti. Ha lavorato anche a Milano, dove serviva ai tavoli.

Ciao Alberto, mi spiace. Dispiace che non ci sei più. Che non posso più incontrarti all’Arci né altrove per chiacchierare e litigare anche un po’. Mi spiace anche perché oggi le cose sarebbero andate in modo completamente diverse: i ragazzi, tanti giovani, in questi giorni ricordano e ringraziano i loro nonni partigiani, ma non indossano le loro uniformi.



 

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