Cucina Pensante

Risotto stancato (?!?!) al persico

Il persico è un gran pesce: delicato e saporito allo stesso tempo, come molti dei sottovalutati colleghi d’acqua dolce (mai assaggiato il quasi introvabile temolo?) Ed è versatile. Magnifico nel ceviche, squisito piatto peruviano, dove regna, crudo e marinato nel succo di lime, su apprezzabili sudditi quali la cipolla dolce, il cerfoglio fresco e dosi certo non omeopatiche di peperoncino. Eccellente nel tempura, e anche semplicemente passato nel burro. Ma provate a farvi un bel risotto, un classico dei laghi lombardi. Io ho seguito la ricetta di un ristorante tradizionale, modificando certi tempi di cottura e certe tecniche.

I miei risotti sono buoni (se non ci credete ve ne spedisco uno via fax), anche se commetto un peccato che i puristi raccomandano di evitare: lo mescolo spesso, con il cucchiaio di legno. Il rischio, dicono, è rompere la cuticola liberando gli amidi. E quindi, tre Pater e due Gloria e non farlo più, figliolo. Ma, da pervicace peccatore, a me non pare un rischio, quanto piuttosto un modo per ottenere un risotto al dente ma ben legato come piace a me. E poi, Mamma Elda mi diceva che il risotto io lo cucinavo stancandolo, a furia di parlargli e di girarlo. Probabilmente aveva ragione. Quindi, risotto stancato al persico.

Ho preparato in un coccio un soffritto di cipolle (se volete, potete anche farne uno classico con cipolla, sedano e carota) a fuoco molto basso e ho tostato il riso in un’altra padella con un filo d’olio (per non rischiare di bruciare il soffritto facendovi tostare direttamente il riso). Ho aggiunto il riso al soffritto, ho sfumato con del vino bianco (un prosecco) e ho seguito il consiglio di un amico, Luca Dentis, aggiungendo solo a questo punto uno spicchio d’aglio tritato, che lascia così un profumo più persistente. Sono andato avanti con brodo di verdure: non ho usato un misto di verdure e fumetto perché avevo comprato il persico già sfilettato. Ma la prossima volta, farò un cinquanta/cinquanta.
Intanto ho tagliato il pesce, con un coltello per sfilettare affilato come la lingua di vostra zia quando vi racconta di vostro zio, buonanima.

L’ho tagliato parte in strisce e parte in tocchi più grandi, tanti quanto il numero dei commensali. Mentre il risotto proseguiva il suo sereno lavoro di risottatura (continuavo a parlargli, naturalmente, ché altrimenti si sentono soli, i risotti) , ho rosolato le fette più grandi nel burro chiarificato, facendole dorare bene e le ho tenute in caldo. Insieme, come consiglia la ricetta originale, ho fritto delle foglie di salvia fino a renderle croccanti.

Ho aggiunto le strisce più piccole al risotto pochi minuti prima di fine cottura perché non diventassero stoppose come la vostra lingua dopo il secondo whisky di malto (anche la mia lo fa, però) e ho ancora sfumato con vino per aumentare un po’ il tasso di acidità che mi pareva troppo basso con la presenza del pesce. Spento il fuoco, ho mantecato con una noce di burro e fatto riposare un paio di minuti. Ho servito sovrapponendo al risotto la fetta dorata conservata in caldo e una foglia di salvia fritta. 
Giurerei di aver sentito Mamma Elda dirmi “Brau Nini!”. 
Unico problema: il numero di fette più grandi: perché i miei hanno fatto il bis e hanno elevato vibrate proteste per la loro assenza nella seconda porzione.
E avevano ragione, perdiana!

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