Editoriale

Se c’è sangue, fa notizia

Per anni ho cercato, a volte con grande fatica, di rimanere razionale di fronte ad atti di violenza pubblici e privati, guerre, manifestazioni di discriminazione ecc. Ho cercato di allargare lo sguardo, capire oltre il fatto in sé, darmi una spiegazione se non una ragione di questi fatti.

Ho pensato alle statistiche, alla realtà più oggettiva del “particulare”. Poi sono arrivati due bambini a rendere inutile qualsiasi possibile spiegazione, comprensione, analisi. La mia emotività ha cancellato qualsiasi traccia di ragione di fronte a Quaden Bayles, bambino australiano bullizzato che chiede di morire e alla risata, amarissima, della bimba siriana coinvolta dal padre in un gioco esorcizzante della paura delle bombe. Di fronte a queste due creature crolla tutto, nessuna razionalità può contrastare, nemmeno attenuare, lo strazio, la pena, l’emozione.

Nonostante tutto però, abbiamo l’obbligo di verificare, analizzare dati e statistiche per cercare se non di dare un senso a cose che non ne hanno, per lo meno a comprendere la dimensione reale dei fenomeni che ci circondano. Cominciando da una constatazione che può apparire sconvolgente: nel lungo periodo la violenza è diminuita, e oggi viviamo probabilmente nell’era più pacifica della storia della nostra specie. Di certo tale diminuzione non è stata uniforme, non ha azzerato la violenza e non è garantito che continui. Ma è un fatto indubbio, visibile su scale che vanno da millenni ad anni, dalle dichiarazioni di guerra alle sculacciate ai bambini.

Studiosi come Steven Pinker, Azar Gat, Joshua Goldstein, Manuel Eisner hanno dimostrato con dovizia di particolari come mai nella storia siamo di fronte ad un mutamento progressivo ma inarrestabile dei rapporti sia sociali che politici, se non propriamente pacifici, per lo meno caratterizzati da una minore propensione all’accettazione sociale e culturale della violenza. Le nostre facoltà cognitive ci predispongono a credere che viviamo in tempi violenti, specie quando sono alimentate da mezzi di comunicazione che seguono la parola d’ordine anglosassone “if it bleeds, it leads”, “se c’è sangue, fa notizia”.

Così ci ritroviamo anche in Italia a ragionare su una emergenza criminalità del tutto creata ad arte. Gli omicidi nel 1992 sono stati 1442 nel 2019 poco più di 300. Anche il numero dei femminicidi, crimini orrendi che giustamente sono messi al centro del dibattito, ci vedono come Paese al quartultimo posto in quanto a numero per abitante tra i Paesi europei.

Gli omicidi di donne in Italia sono lo 0,5 ogni 100 mila abitanti, subito sopra la Svezia 0,4 e sotto Danimarca, Gran Bretagna, Norvegia e Austria che sono intorno al 0,6/0,7. L’Ungheria al 1,1 e la Finlandia al 1,4 sono dietro solo a Lituania, Moldavia e Bielorussia dove le donne uccise ogni 100 mila abitanti superano il numero di 2. Anche la “semplice” violenza sulle donne è scesa a livelli mai sperimentati dalle generazioni precedenti.

Fino agli anni 40 e anche 50 del ‘900 le donne, specialmente nelle zone agricole, subivano violenze quotidiane dai mariti. Se oggi abbiamo la sensazione che la violenza domestica sia in aumento lo dobbiamo proprio alla sensibilità aumentata verso questo tipo di comportamenti e alla propensione sempre maggiore delle donne di denunciare.

Oltre alla speculazione politica e alla già citata tendenza della comunicazione mainstream di esaltare gli aspetti granguignoleschi e cruenti della cronaca dobbiamo chiederci quali meccanismi culturali hanno prodotto sia la diminuzione della violenza sia la nostra incapacità a percepire tale tendenza. La causa principale della percezione di una violenza onnipresente scaturisce proprio da una delle forze che hanno portato alla sua diminuzione.

Il declino dei comportamenti violenti è proceduto di pari passo con il declino delle posizioni che tollerano o glorificano la violenza, e che spesso svolgono un ruolo guida. Nonostante la recente recrudescenza delle ideologie fasciste, tali ideologie in tutto il mondo hanno avuto un sistematico ridimensionamento.

Se prendiamo come metro di misura le atrocità di massa compiute nel corso della storia umana, l’iniezione letale somministrata a un assassino in Texas, o un crimine occasionale dettato dall’odio, come l’intimidazione di un membro di una minoranza etnica da parte di un gruppo di teppisti, sono reati o pratiche relativamente minori. Ma oggi, dal nostro punto di vista, siamo portati a vedervi un segno di quanto in basso possa cadere la nostra condotta, non di quanto in alto sia salito il nostro metro di misura. La nostra sensibilità rispetto alla violenza è sia il fattore calmierante degli atti criminali sia l’antenna che ce li fa percepire al di sopra dei numeri reali.

Secondo Steven Pinker abbiamo attraversato varie fasi nella storia durante i quali la violenza è andate diminuendo. Fra il tardo Medioevo e il XX secolo i paesi del Vecchio Continente videro una riduzione dei tassi di omicidi da dieci a cinquanta volte. Il sociologo Norbert Elias attribuì questa sorprendente diminuzione al consolidarsi di un mosaico di territori feudali in grandi regni, con un’autorità centralizzata e un’infrastruttura commerciale.

Un altro momento di grande riflessione sulla natura dei rapporti umani fu l’età della ragione e dell’Illuminismo europeo, nel XVII e XVIII secolo. Essa vide nascere i primi movimenti organizzati volti ad abolire forme socialmente approvate di violenza come il dispotismo, la schiavitù, il duello, la tortura giudiziaria, le uccisioni dovute alla superstizione, la punizione sadica e la crudeltà verso gli animali, insieme alle prime avvisaglie di un pacifismo sistematico.

Sempre secondo Steven Pinker “Una importante transizione ebbe luogo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Da allora, per due terzi di secolo, si è assistito a uno sviluppo senza precedenti nella storia: le grandi potenze, e più in generale gli Stati industrializzati, hanno smesso di farsi la guerra. Gli storici hanno chiamato questo felice stato di cose «la Lunga pace».

Benché per i lettori dei quotidiani possa essere difficile crederlo, dalla fine della guerra fredda, nel 1989, i conflitti organizzati di ogni genere – guerre civili, genocidi, repressioni da parte di governi autocratici e attacchi terroristici – sono diminuiti in tutto il mondo.

Nel dopoguerra, simbolicamente inaugurata dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nel 1948, abbiamo registrato un crescente ripudio delle forme di aggressione su scala minore, come la violenza contro minoranze etniche, donne, bambini, omosessuali e animali. Questi derivati del concetto di diritti umani – diritti civili, diritti delle donne, diritti dei bambini, diritti degli omosessuali e diritti degli animali – si sono affermati in un’ondata di movimenti, dai tardi anni Cinquanta del secolo scorso fino ai giorni nostri.”

Poi però ci sono gli occhi di Quaden Bayles di fronte ai quali si rimane impietriti e tutti questi dotti ragionamenti sembrano carta straccia. La guerra in Siria ci sta presentando un conto umano inammissibile, nell’indifferenza dei media occupati a scandagliare gli aspetti anche più torbidi di questa sorta di peste del XXI° secolo.

A cosa appellarci? All’umana pietà o all’altrettanto umana ragione? Se è vero come sembra che il mondo non è così in preda a violenze senza precedenti, facciamo in modo che questo trend continui e che, anzi, aumenti in intensità. Facciamo in modo che tra le tante violenze cancellate dalla storia si arrivi presto a cancellare anche quelle contro i tanti Quaden Bayles e le tante bambine e bambini siriani che ancora soffrono.

 

 

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